di Vincenzo Vizioli.
Il 5 giugno è stata celebrata la Giornata Mondiale dell’Ambiente. Alla luce degli evidenti problemi ambientali che stanno ipotecando il nostro futuro, ci piacerebbe molto che questa non restasse una delle tante celebrazioni rituali che, pur sollevando problemi reali e diffondendo informazioni scientifiche importanti, si risolvesse con l’ennesima raccolta di “grida di dolore” che ormai da anni denunciano la necessità di scelte radicali non più rimandabili, sapendo che questo modello di sviluppo ci sta portando sulla strada del non ritorno. Anche quest’anno i temi proposti dall’Assemblea Generale dell’ONU sono indiscutibilmente rilevanti e centrali. I dati scientifici sull’inquinamento delle città, la perdita di biodiversità e i cambiamenti climatici, indicano con chiarezza la necessità e l’urgenza di scelte politiche conseguenti.
Noi, per il nostro vissuto e settore che rappresentiamo, parliamo principalmente di politica agricola, consapevoli che nell’applicazione di un metodo di coltivazione sano e buono per l’ambiente, per chi ci lavora e per chi i prodotti li consuma, ci facciamo carico di un pezzo importante nel rapporto tra uomo e ambiente. Pensiamo però che il ragionamento abbia valore per tutti i settori produttivi e che il problema ambientale non può più essere affrontato sotto il subdolo ricatto: inquinamento o lavoro; produttivismo a ogni costo, contro fame; perché falso e utile solo a rimandare scelte che, invece, richiedono tempi rapidi nel mettere a punto strategie con approccio sistemico, che comportano necessariamente anche cambiamenti radicali. Allora come valorizzare i temi sollevati da questa giornata? Come dare senso alla celebrazione? Come capitalizzare per esempio: il rapporto dell’ISPRA sull’inquinamento da pesticidi delle acque, quello dell’ONU sulle drammatiche conseguenze della perdita di biodiversità, quello del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (IPCC) sulla necessità di azioni di contrasto?
Utilizzandoli come occasione per riflettere nel merito delle questioni, definire strategie e pensare a come mettere in pratica le soluzioni, per molti versi ormai chiare. Magari anche per denunciare l’incapacità politica di guardare lontano, per effimeri tornaconti immediati e per non deludere le lobby o le potenti Multinazionali, loro si, capaci di governare un gattopardesco cambiamento. Non a caso il nostro Presidente Mattarella, nella sua dichiarazione per la Giornata dell’Ambiente, ha chiesto alla politica lungimiranza. Inoltre nel discutere di strategie e soluzioni non possiamo dimenticare l’insostenibile peso della burocrazia che frena, limita, svilisce, scoraggia qualsiasi scelta, dalla più ovvia alla più coraggiosa. Assenza di lungimiranza e burocrazia, sono decisamente un freno al necessario cambio di passo verso la tutela ambientale, che deve essere concepita non come singola azione ma come modifica dei comportamenti, nel sistema di produzione e nel modello di consumo, che è forse, l’unico modo per declinare correttamente l’abusata parola “sostenibilità”.
L’attualità ci propone due esempi immediati di quanto l’incapacità di fare scelte coraggiose, mischiata alla burocrazia, sia la causa dell’immobilismo verso strategie e azioni che siano di reale contrasto ai cambiamenti climatici.
Il primo è la riforma della PAC. La Commissione europea elabora il Green Deal come tabella di marcia per rendere sostenibile l’economia dell’UE, partendo dalla constatazione che: “i cambiamenti climatici e il degrado ambientale sono una minaccia enorme per l’Europa e il mondo”. Per superare queste sfide, individua gli obiettivi di una nuova strategia:
- nel 2050 non siano più generate emissioni nette di gas a effetto serra
- la crescita economica sia dissociata dall’uso delle risorse
- nessuna persona e nessun luogo sia trascurato.
All’interno di questa logica elabora una proposta di riforma della PAC incentrata sul ruolo ambientale dell’agricoltura, individuando nella tutela della biodiversità e nel contrasto ai cambiamenti climatici, alcune delle priorità inderogabili su cui tutti i paesi membri sono chiamati ad elaborare un Piano Strategico Nazionale (PSN). Accompagna questa proposta con due documenti, “Farm to Fork” che contiene tra l’altro due obiettivi: meno chimica e incentivi al biologico; e la “Strategie UE Biodiversità 2030”.
A sostenere la necessità di un cambio di politica agricola, proprio in questi giorni, la Corte dei Conti europea (CoA), l’organismo che sovrintende e vigila sull’uso corretto del denaro dei contribuenti dell’UE, ha pubblicato una Relazione sugli impatti della PAC 2014 – 2020 sulla biodiversità. In questa si rileva che la maggior parte dei soldi della politica agricola sono stati spesi per sovvenzioni che finanziano principalmente l’agricoltura intensiva e industriale. Constatando poi, che Il modello di agricoltura intensiva che la PAC ha promosso porta direttamente alla perdita di biodiversità, all’inquinamento dell’acqua e dell’aria, all’estrazione eccessiva di acqua e contribuisce al cambiamento climatico.
Verrebbe da dire allora finalmente ci siamo! Purtroppo non è così.
In Italia il dibattito sulla nuova PAC è in grave ritardo; nessuno spiraglio di lungimiranza, anzi posizioni di retroguardia delle associazioni di categoria che frenano perché non ci siano vincoli alle imprese agricole, cioè stessi soldi a chi inquina e a chi fa biologico. Siamo tra i Paesi europei che non ha nemmeno abbozzato un piano strategico, cioè individuato gli obiettivi che, a detta del Ministero, potranno essere definiti solo dopo l’attribuzione dei fondi, come dire: non abbiamo idee ma ci verranno dopo. Alla vigilia della riunione dei Ministri dell’agricoltura UE “Agrifish” la Ministra Bellanova in un tweet e proprio nell’evento organizzato dall’ISPRA per la giornata mondiale dell’ambiente, ripete che non si può chiedere agli operatori agricoli di farsi carico dei problemi ambientali, ribadendo l’obsoleto e surreale contrasto tra sostenibilità ambientale e sostenibilità economica. Il secondo esempio lo prendiamo dalle pastoie burocratiche che ritardano la liquidazione dei contributi per gli impegni agroambientali del PSR, dei ritardi con cui viene dato il via ai progetti di ricerca per il bio e l’erogazione del contributo per quelli in corso.
Vengono chieste montagne di carte, la ripetizione di dati già noti, dichiarazioni, DURC, certificazioni antimafia, nuovi inserimenti delle domande su portali che, non di rado, funzionano male. Le istruttorie durano tempi indecorosi e poi ci si scontra con il rimpallo di colpe tra Regione e AGEA. Al dunque magari cambia il funzionario che dovrebbe firmare il mandato e si riparte dal via. Dopo due anni in cui le aziende, le associazioni, i centri di ricerca hanno anticipato i soldi, anche ricorrendo alle sempre “generose” banche (anche lì altre carte su carte) che, dopo aver rinnovato due tre volte la pratica a costi e interessi non più trattabili, chiedono il rientro, arriva finalmente la notizia che l’Ente sta per pagare. Nel frattempo, magari proprio per colpa di questi ritardi, l’azienda non ha più il DURC a posto perché, per oggettiva impossibilità, ha dovuto rimandare qualche pagamento. Il risultato è che l’erogazione si blocca.
Per riprendere la preoccupazione della Bellanova, le aziende biologiche hanno lavorato per la sostenibilità ambientale, hanno fatto ricerca e progetti per sostenere il cambiamento ma la sostenibilità economica è stata stroncata dalla politica e dalla burocrazia.